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Vittorio Sgarbi – Pyro-Pop

In fondo lo faceva anche Alberto Burri: si brucia il materiale plastico di origine petrolchimica per ricavarne l’effetto fisico delle combustioni, dotato di un’espressività materica particolare, drammatica, anche barocca, come qualcuno ha sostenuto, nella singolarità e imprevedibilità delle forme che le bruciature, una volta raffreddate, assumono. Ma Burri non bruciava nulla che fosse già stato figurato, le sue plastiche combuste, anzi, erano contrapposte alle figurazioni ottenute con gli strumenti più consueti della pittura, volendo indicare, rispetto ad esse, un orizzonte artistico diverso, nella convinzione di avere a che fare con la modernità di un’epoca, per cui nulla sarebbe potuto più essere come prima.

In fondo lo faceva anche la Pop Art americana, Andy Warhol in testa: si raffigurano le persone, i luoghi, gli oggetti di cui l’immaginario di massa fa maggior consumo, i più adatti alla riproduzione seriale, che la grafica pubblicitaria, entrata di forza nelle abitudini quotidiane, ha elaborato per la massima efficienza di un mercato economico a misura sempre più globale, avendo come massimo obiettivo la diffusione di un marchio di fabbrica standardizzato, detto logo, adottato come nuovo oggetto di culto. I Pop Artist, però, si guardavano bene dal bruciare le loro figurazioni: il processo consisteva nel sacralizzare ciò che la quotidianità e l’estensione del consumo rendeva banalmente di massa, non nel suo contrario, come una combustione, avrebbe finito per rappresentare.

In fondo DICÒ, grafico di provenienza, non fa né il Burri redivivo, né l’erede della Pop Art, anche se entrambe le esperienze, lo hanno ampiamente ispirato. DICÒ è indubbiamente altro rispetto a entrambi, pur avendo mantenuto, di essi, un imprinting di certo non irrilevante. Innanzitutto, perché DICÒ è espressione di un’epoca storica diversa rispetto a quella di Burri e Warhol, morti oltre venti anni fa. Rifarsi a Burri e Warhol nell’epoca attuale vuole dire assumere o un atteggiamento passivamente accademico nei loro modelli assoluti che sono rimasti ancora insuperati, o uno di tipo attualizzante, volto a conciliare l’eredità artistica dei due maestri con la sensibilità estetica dei nostri tempi. Del resto, anche l’idea di base attorno alla quale si sta muovendo questo discorso, quella, cioè, di realizzare una crasi espressiva fra Burri e Warhol, è intellettualmente disinvolta, trattandosi di artisti diversissimi fra loro. Perfino antitetici, benché accomunabili per la forza innovativa.

Va ricordato che non solo Burri ha fatto arte col fuoco, così come non solo Warhol si è proposto di fare figurazione secondo i dettami della comunicazione moderna. Yves Klein, per esempio, passava per un autentico piromane, guardava al fuoco, imbevuto come era di filosofia zen, secondo l’antica considerazione non solo simbolica di strumento purificatore per eccellenza con cui giungere allo stato spirituale dell’immaterialità, attraverso una performance nella quale bruciava il suo amato blu acrilico, già di per sé assoluto, vuoto come il divino Nirvana, impiegando petardi che, sull’uniforme superficie cromatica, lasciavano dissonanti segni di ustionature da scoppio. È improbabile che DICÒ condivida la stessa propensione mistica di Klein, ma il suo modo di interpretare la funzione vivifica del fuoco non è troppo lontana dalle simbologie care all’artista francese. Rispetto a Klein, quello che DICÒ persegue è piuttosto il controllo del deterioramento, che si configura come una tecnica a parte, la più sofisticata fra quelle a sua disposizione, in grado di purificare il manufatto di partenza quanto basta, rigenerandolo, senza annullarlo o sconvolgerlo irreparabilmente. Ciò, da una parte, rivela una concezione pragmatica dell’arte, per cui quello che conta è l’oggetto che riesci a elaborare, non ciò che agiti attorno a esso, dall’altra conferisce all’atto della bruciatura una connotazione che, pur esente da afflato mistico, è comunque di natura materiale, di spiritualità aggiunta, sovrapposta, verrebbe da dire, aumentata, trasferendo nell’oggetto, così modificato, un’impronta indissolubile della propria personalità.

In quanto alla figurazione, mi pare evidente che Andy Warhol e la Pop Art facciano da presupposto, in DICÒ, anche ad altri riferimenti, quali, per esempio, la Street Art. È proprio questo rinnovamento delle fonti che permette a DICÒ di esimersi dal mito consumistico, che pure non manca affatto di essere considerato, data la forza che ha conservato anche nella società dei nostri giorni, ma in un modo psicologicamente meno condizionato, fino al punto di arrivare a dissacrarne, per via pirica, le rappresentazioni, nel proposito di affermare la propria autonomia dagli automatismi omologanti della logica di massa. In sostanza, rispettando la concretezza laica e senza compiacimenti DICÒ: brucio perché sono, e non voglio essere come il sistema vorrebbe; ma brucio anche per far rinascere, dare nuova vita e riscattare la forma bruta dell’esistente, caricarla di nuove pulsioni interiori, con un senso del vissuto che confida nel fascino del relitto della civiltà industriale (Nouveau Réalisme e “Junk Art”), secondo la più raffinata delle espressioni decorative, capace di presentare l’opera secondo una nuova indole, una nuova anima.

A giocare col fuoco, diceva Oscar Wilde, non ci si scotta mai. È a non sapere giocare che ci si brucia. Completamente.

Vittorio Sgarbi
Critico d’Arte